mercoledì 28 marzo 2007

Rotweiller

La ferita ancora mi pulsa. Un filo di sangue mi esce ancora dal polpaccio perché i buchi del morso di quel rotweiller non mi si sono ancora rimarginati. Che senso aveva scavalcare quel cancello? Nessuno, di sicuro. Ma dovevo farlo. In circolo c’erano i sette Gin Lemon che si muovevano fluidi e pesanti. Un pugno nello stomaco. Non ricordo neanche perché. Forse il compleanno di quella banda di new brit-dark proprio di fronte a me da cui mi sono fatto trascinare. Why the fuck don’t you dance? Recita il cartello. Mi spingo fuori e lei mi segue come se avessi un magnete che trascina i suoi occhi nero miele. Rido forte e lei con me. La tocco e sento i suoi muscoli contrarsi sotto quel vestito a righe stile H&M, molto british. In un attimo siamo davanti a quella villa. Luci, piante alte come il Pirellone, acqua e fiori. Sembra il paradiso dei ricchi a cui io posso solo assistere. Prego acquistare il biglietto e mettersi in fila. Il suo viso bianco tra le sbarre di metallo nero-arrugginito. Statue, allarmi, selciato perfetto. La bacio con la testa che mi gira a mille e la spingo, tiro, stringo tra le mie braccia. Poi mi stacco e salto. Da sopra quell’inferriata vedo tutto, anche le luci rosse sfumate degli stop delle auto. Cazzo, se mi beccano sono guai. Ma stasera sono invincibile come il cavaliere mascarato. Lei mi guarda come fossi il suo Dio. Però! Non pensavo fossi così agile?! Sei bella come il sole, ma vederti da qua sotto mentre scavalchi il cancello, mi scatena qualcosa. La terra è umida ma non me ne frega un diavolo se sotto ci sei tu. Difficile rivivere un momento come quello. L’attimo in cui sono dentro di te, i miei occhi sopra i tuoi e la bocca che vuole ogni cosa di te. Ho la testa staccata dal resto del corpo che va per i cazzi suoi. Sentirti calda e così morbida mi fa andare in circolo il Gin. Ma sei bella e ti voglio. Al diavolo questo stronzo di commendatore a cui il giardino serve solo per farsi bello agli occhi degli altri. Se esiste un paradiso non deve essere molto diverso da questo, a patto che ci sia tu. Stretti, esanimi, stanchi, cotti. Potrei morire tra queste braccia in uno spazio senza tempo, con il profumo del tuo balsamo su cui solo sono concentrato. Qualcuno mi svegli, per favore, perché se è un sogno arrivo in ritardo di sicuro al lavoro, se non lo è lasciatemi qua. Sdraiato su di lei, non sento il freddo, sonno, niente. Sento solo che ho bisogno di lei. Lei ride, forte e mi guarda come se non mi avesse mai visto. “Tu sei pazzo” continua a ripetermi e mi sferra un pugno. Un rumore. Un cancello che si apre. Qualcuno che abbaia. Lontano ma abbastanza vicino da farmi stringere le chiappe. Mi vesto veloce, con i fili di erba tra le mutande e l’umido sulle ginocchia. Non riesco nemmeno a capire come mi chiamo – che ore sono – cosa faccio lì – come faccio ad uscire che, in un attimo, mi ritrovo Argo stretto al mio polpaccio. Qualcuno sbraita dal terrazzo, avvolto in una vestaglia antisesso e con la faccia tirata come il culo di una gallina. Lo guardo ma non lo vedo dato che la gamba mi fa un male dell’anima. Con un calcio mi libero e corro verso di lei, due metri sopra di me in cima a quelle sbarre di metallo nero-arrugginito. Il sangue esce fluido, veloce e forse ci dovrei mettere qualcosa. Lei si piega e si prende cura di me. Sopra di me la luna fa luce come se quasi fosse giorno. Intorno il silenzio e l’atmosfera ovattata della notte milanese e di fronte i suoi capelli ed il suo collo sottile davanti a me. Why the fuck don’t you dance? Altrochè..stasera ho ballato. E lei con me.

martedì 27 marzo 2007

Destino

Certe cose devono accadere per forza. Non credo esista un disegno programmato da qualcuno che si chiama Dio perché altrimenti non mi spiegherei fino a che punto lui è disposto a perdere qualcosa in cambio del proprio piano. Non riuscirei a spiegarmi quale possa essere il disegno dietro a milioni di bambini che ancora nel 2007 muoiono di sete, come pure le guerre, la sopraffazione, il degrado dell’ambiente. Tutto ciò accade. E basta. Ma dietro ad ogni azione esiste una reazione. E io credo che l’essenza del fatalismo sia lanciare dei segni che ti mostrino o che ti spingano ad una reazione. Fatalismo reazionario. Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui venne a mancare mia nonna. E ancora più forte ricordo il viaggio di ritorno quel giorno. Il silenzio assordante dell’auto era solo inframezzato dai tir veloci della Torino-Savona. Ognuno di noi era immerso mani e piedi nella bolla dei ricordi ed eravamo scarichi e consumati dall’adrenalina che circolava. Fu quel giorno che per la prima volta sentii mio padre confessare ciò che aveva provato e come un fiume che sfonda gli argini, vomitarci addosso i suoi stati d’animo fino a quel giorno a me sconosciuti. Quella è la reazione. Non credo di farla rivoltare nella tomba se dico che ringrazio il cielo che lei non ci sia più. Quella reazione non l’avrei mai conosciuta. E ora non avrei un pezzo indissolubile dentro di me che va oltre la morte, la vita, i pensieri. Certe cose devono accadere e non conta farsi trovare pronti. Ma conta ascoltare se stessi e chiedersi “E adesso?”. “Qual è la cosa che deve succedere adesso? Cosa devo fare o non fare io adesso?”. Oggi è il 26 di marzo e, come tutti i 26 non può non succedere qualcosa: compleanni, matrimoni, date importanti. Mi vesto, preciso, ordinato come sempre e mi guardo allo specchio. Lo so che oggi succederà qualcosa. E’ come se avessi la possibilità di conoscere in anticipo dove cadrà quel fulmine. A me la scelta: farmi prendere in pieno o scansarmi giusto l’attimo prima. Le ore girano veloci. La chiamo, le dico che le devo parlare e respiro. L’ansia mi sale da dentro come un frullatore impazzito a cui qualcuno minaccia di togliere il tappo. Ciò che devo dirle è ciò che sappiamo benissimo tutti e due da molto tempo ma che io non avrei mai avuto il coraggio di affrontare. Ora invece sono lì. Strofino le mani come solo l’uomo infreddolito delle caldarroste in centro potrebbe fare. Fiato zero. Occhi e pensieri stentano a rimanere apatici. Dopo un giro di orologio e tante parole dal cuore, sono lì. La guardo e vedo una proiezione in cinemascope degli attimi che ci hanno accomunato. Lei è grande, come al solito. Lei è stata il mio destino. La donna giusta al momento sbagliato o la donna sbagliata al momento giusto. Forse tutte e due. O nessuno dei due. Ma lei c’è stata. E tutto è accaduto e non mi sono potuto sottrarre. Attendo con ansia il manuale delle cose che ho sbagliato e di quelle che non ho capito salvo poi buttarlo per potermi ritrovare a sperimentare la reazione. Alla fine è quello che ci si aspetta, no? Azione-reazione. L’azione si chiama amore-gioco-partecipazione-passione-sostegno-crescita-assuefazione-sviluppo-disaffezione-evasione-allontanamento. La reazione si chiama tornare a vivere. Rifarei tutto con lei. Perché il destino era essere come ero in quel momento, era lei ed i suoi sogni in quel momento, era noi e le nostre false convinzioni in quel momento. Ora viene il bello. L’esame è appena cominciato. Ognuno si lascia inghiottire da una vuota oppressione di appuntamenti, impegni, ritmo, frenesia ed ansie. E ti rimetti in gioco. Sei quasi nudo come un verme ma lo devi fare. C’è qualcosa che ti spinge a buttarti, a dire ciò che senti, ciò che vuoi, ciò che volevi. Mi piacerebbe parlarci con questo destino ed un giorno chiedergli se sia io che lei abbiamo imboccato la strada giusta. Mi farei raccontare ciò che non ho capito e ciò verso cui lui mi ha portato. Mi farei anche raccontare quei gesti e quelle decisioni che sono arrivate, da dove sono nate. Camminerei a braccetto con lui e gli offrirei da bere. Ma solo se mi assicura che la reazione di adesso e quelle che verranno portano verso ciò che dicono si chiami felicità.

lunedì 26 marzo 2007

Real Rosauron

I riflettori sono pronti per accendersi. Gli spalti sono ancora mezzi vuoti ma c’è già fila ai cancelli. La fila che ti serve per dire se era meglio Mazzola o Rivera. E che ti fa battere il cuore quando senti il boato dietro quel cemento. Meglio avere una panchina lunga. Può sempre tornare utile. Il vantaggio è quello che puoi mettere in campo la persona migliore nel momento migliore. Ognuno con le sue caratteristiche. Tra i pali devi avere qualcuno pronto a prendersi delle sassate a 100 chilometri all’ora e a tuffarsi tra le gambe dell’avversario, senza protezione. Alla faccia di quelli che si tirano indietro e non si buttano anima e cuore nelle emozioni. In mezzo ci metti uno tutto muscoli, spalle larghe e cuore generoso. E’ la diga. E’ quello che se anche non ti volti sai che c’è. La persona su cui puoi sempre contare. Provate a fare il conto di quanti amici avete così. E’ lui che da sicurezza al reparto. E i suoi angeli custodi alla sua destra e alla sinistra sono pronti a scattare ad un suo cenno. Lavoro duro quello dell’ala. Defilato. Si da un gran da fare. I polmoni a stantuffo. Una locomotiva senza fermate in vista. Gioca ai bordi. La panchina lo osserva mentre lui è ai margini ma qualcuno lo nota sempre. C’è sempre qualcuno che dalla tribuna fa il tifo per lui. Negli occhi ha le discese dei grandi del calcio e quei campi di erba alta in cui macinava i chilometri che erano la sua seconda casa. Così come il gesso del cerchio del centrocampo è la casa del rifinitore. Il tocco della palla ricorda le pennellate di Baggio e la sfrontatezza di Sivori. Lui è l’arte del calcio. Il bello che si mette in mostra per lo scatto dei fotografi e delle punte. Il suo dribbling esalta le folle. Ricorda il volo di un insetto, il ricamo di un sarto, una sonata di violini. E’ l’esteta. Colui che ama l’arte nel calcio e nella vita. Quello che si appassiona alle cose. Il piacere, l’esaltazione e l’egocentrismo. Qualcuno dice che dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna. Allora io dico che dietro ad un numero 10 c’è sempre un grande mediano. E’ quello che quando avevi 20 anni non svettava mai al centro della compagnia, non era la primadonna, né il pagliaccio, né il tenebroso. Ma c’era. Sempre. Pronto ad accompagnarti se ne hai bisogno. Ad ascoltarti se hai perso qualcosa. O qualcuno. Lavoro sporco. Ma mette ordine, detta i tempi. E’ il metronomo che scandisce il momento di tirare il fiato o di spingere. E spingere ancora. Fa da filtro a tutto tranne che alle emozioni. I suoi miti sono Oriali, Bagni, Furino. Se sei indietro o sei troppo avanti, lui ti copre. E ti aiuta. E’ umile, è da sette in pagella perché l’otto e il nove lo dai solo alla punta. Davanti a tutti. Il centravanti che è dirompente. Come un pugno nello stomaco. Il suo sinistro riesce a piegare le mani a chiunque provi a contrastarlo. Non ride molto. Ma non gli serve. E’ la forza contrapposta alla dolcezza. Spalle alla porta come se non gli importasse nulla di cosa c’è dietro di lui. Fila dritto e guarda avanti. Difficile fermarlo come difficile toglierli dalla testa quel pensiero. Il gol. La rete che si gonfia, l’urlo di 80.000, lei che ti guarda dagli spalti, tuo padre che ti guarda dal cielo. Fanculo ai benpensanti che dicono che non ce l’avresti fatta. Il suo scatto ti lascia sul posto. Per fermarlo gli devi sparare o chiamare i carabinieri. E’ devastante e sai che devi mettergli la palla sulla testa o sul sinistro. Al resto ci pensa lui. Con una squadra così c’è poco da fare. C’è solo da mettersi in fila. I riflettori ora sono accesi. Gli spalti sono quasi pieni ma c’è ancora fila ai cancelli. La fila che ti serve per dire se era meglio Mazzola o Rivera. E che ti fa battere il cuore quando senti il boato dietro a quel cemento. Manca solo il fischio d’inizio. 90 minuti o 90 anni, che sia una partita o una vita ciò che conta è sempre quello. Mettercela tutta. (dedicato a tutti i giocatori del Real Rosauron e a tutti quelli che ci credono sempre)

venerdì 23 marzo 2007

Mio padre

Le sue mani consumate dal lavoro e dalla fretta di quei gesti sempre uguali,
il collo largo, caldo, la barba nascosta tra le pieghe di un viso
che non lascia passare alcun sentimento.
Gli occhi profondi di chi ha celato dentro di sé la bonta di un bambino.
Io non sono come lui. Ma seguo la sua voce, i suoi passi e la sua calma rassicurante.
Se solo il mondo avesse un pezzo della sua bontà.
Lo osservo tra i suoi fogli. Quei conti precisi carichi di responsabilità e passione.
Ogni centesimo è frutto di un suo sforzo e di un suo sorriso.
Ricordo i suoi occhi incrinati dal pianto uguali ai miei
E capisco che ho dentro di me una parte di lui.
Quando osservo il campanile del mio quartiere, i panni stesi nel cortile,
quando sento il profumo di un arrosto appena fatto.
Sento lui. Sento la sua voce e sento la sua voglia di abbracciarmi. O almeno
questo è quello che mi piace sognare e pensare prima di addormentarmi.
Vivo nella speranza di potergli dire un giorno che lo stimo enormemente.
Vivo con il desiderio di poterlo stringere. Vivo perché lui è il faro che mi guida
verso la risacca. Un giorno racconterò di lui a un giovane ragazzo che vuole capire
come affrontare la vita. Gli racconterò dell’umiltà, della semplicità, dell’onestà.
Gli racconterò dei suoi errori e dei miei. Del profumo dei suoi maglioni, del rumore
delle sue ciabatte. Delle caramelle nel cruscotto sempre pronte per le mani dei bambini.
Lasciate che la semplicità di un grande uomo faccia breccia nei vostri cuori.
Fate tesoro dei suoi sorrisi e degli sguardi severi. Custodite gelosamente le sue foto
da adolescente alle prese con un campo ed un pallone.
Io non sono come lui. Ma in un angolo del cuore e della mente ho tutti i suoi gesti

E le parole non dette. Il tesoro che custodirò gelosamente per il padre che sarò.

Diario di viaggio: Stoccarda e per il Baden Wuerttemberg

Esclamo “I am not Santa Claus” dinnanzi ai due impavidi colleghi indiani che vorrebbero, nel mezzo della ridente e sterminata campagna del Baden Wuettemberg che trovassi loro un ristorante vegetariano….li lascio davanti ad una fantomatica panetteria, dicendo “questo e’ un fast food vegetariano” e me ne vado a mangiare da Pasquale…
Sotto la neve incessante, me li ritrovo dopo un’ora , pentiti di non avermi ascoltato, sporchi e intrisi di cacca di cane..le innumerevoli cadute in mezzo alla neve hanno avuto il loro effetto.

Inizia cosi’una profetica settimana di Dicembre..
Al termine della giornata, del resto, se venite avvicinati, dopo un lungo pedinamento in un parcheggio con la frase “ italienish?”, non pensate siano sicari.. anche se il cuore batte fortissimo e pensate sia finita.

Si tratta degli esponenti della comunita’ italica che lavorano in Coca Cola…tutti ci tengono ad un saluto personale e devo dividermi tra calabresi, siciliani e pugliesi, senza scontentare nessuno...

Ho dovuto perfino accettare un invito della comunita’ sardo – tedesca, che mi ha accolto a mangiare il porceddu in una sorta di sagra natalizia , una delle tante del resto che fanno concorrenza ai tipici mercatini natalizi dove per vincere il freddo e’ d’uopo bere almeno tre calici di vino rosso caldo e mangiare tutto di un fiato un bel wusterone nostrano. E poi, via tutti rossi paonazzi a montare le catene per tornare in albergo.

Dimenticavo, e’ piaciuta la mia frase “ I am not Santa Claus” e quindi il management locale mi ha fatto travestire da Babbo Natale e obbligato ad alcune foto di rito..Chissa se davvero il consumismo porti sempre democrazia..

Non da ultimo. Con il numero ventidue si chiude l’avventura editoriale delle Pillole . Ringrazio i lettori per la pazienza e l’affetto che mi avete dimostrato.

Un abbraccio speciale va a Fabio Lulli, che mi ha spronato in questa avventura editoriale e deliziato con i suoi articoli di corredo. Le Pillole sono davvero merito suo.

"That's all folks" - WB Pictures

Grande fermento nel mondo editoriale per l'ultimo numero de "Le Pillole": i direttori delle principali testate stanno facendo letteralmente a gara per avere un intervista in esclusiva con il golden boy della revisione contabile.
Lo staff del nostro connazionale ha fatto trapelare che le trattative con il settimanale "L'Espresso" sono ben avviate: unico scoglio, la richiesta del bizzoso auditor brianzolo di veder cambiato, in occasione dell'intervista, il nome della testata in "Il Caffè d'orzo in tazza grande macchiato freddo".
Fiaccolate in tutto il mondo per esprimere il rammarico per la conclusione di questa avventura editoriale: sulle note di "Quando un amore finisce " di Riccardo Cocciante, migliaia di persone hanno sfilato per le vie di Monza scandendo a gran voce "Democracy, Democracy".
Alcuni spiacevoli incidenti si sono verificati quando uno studente dell'Istituto Alberghiero "Paris Hilton" di Muggiò ha osato domandare "Ma i suoi capelli sono davvero così perfetti?": il poveretto è stato linciato dalla folla inferocita.
Gli artigiani di Napoli, sempre pronti a recepire gli spunti forniti della cronaca, hanno già creato la statuina del presepe con le fattezze del nostro Andreone: sarà posizionata tra quelle di Pietro Taricone e di Loredana Lecciso, sulla destra dei Re Magi.

“Parte un nuovo appuntamento settimanale...in cui vi faro' avere mie notizie..dal mondo..beh a dire il vero per questa versione di prova il pubblico dei destinatari e' un campione ridotto di persone, quelle con cui sono maggiormente in contatto, ovvero i miei preferiti o preferite..”

Il manoscritto originale de la prima edizione de "Le Pillole", è stato donato al municipio di Lissone e verrà custodito in una teca posta accanto al prezioso e antichissimo primo esemplare di comodino mai realizzato.

Stavolta ho davvero finito

Cos'è una pillola

Mi svegliai su di un prato, umido. Un cerchio alla testa e la luce dell’alba. Si avvicinò un vecchio barba bianca e dita ingiallite da troppe Galousies. Prese a fissarmi. Cercai di sostenere il suo sguardo. Ma l’alcool e le poche ore di sonno mi ancoravano al suolo senza scampo. “Dammi il tuo tempo” mi disse.
“Scusi?” domandai io convinto di aver frainteso.
“Hai capito bene, vorrei il tuo tempo..” continuò il vecchio con gli occhi lucidi.
“Quale tempo? A cosa si riferisce?”
Silenzio
“Mi ha sentito? A quale tempo si riferisce?”
“Mi riferisco al fremito di un bacio rubato, all’essere libero cittadino di un paese che non ti conosce, alla solitudine malcelata in un caffé fumoso. Mi riferisco al tramonto da un oblò di un aereo. Al pensiero di ciò che hai lasciato e di ciò che troverai. Figlio mio....tu non sai come ti invidio. Come vorrei assaporare nuovamente il fremito di una libertà inebriante.
“Forse ho qualcosa per lei” incalzai io “ma deve farne un uso moderato”
Silenzio
“Prenda”
Il vecchio mi porse la mano grinzosa come un bimbo di fronte a dei dolciumi. Strinse la pillola con forza e mi guardò con aria interrogativa.
“Non mi chieda perché e non aspiri a riviverla” “In essa è contenuta la forza di una risata fragorosa. Forte come il destro di Carnera. Ci può vedere il sogno di un uomo nascosto tra le pieghe delle sua vita. Ci può respirare i profumi delle spezie e della nebbia e delle camere d’albergo di paesi lontani. Eros e psiche. La grinta di chi non molla e la forza e la calma di chi vuole prendersi il mondo ma non ha alcuna fretta. Il vecchio mi guardava estasiato. Ingoiò senza indugio il mio dono. E per un attimo gli tornarono alla mente i balli abbracciati nelle sale di paese, la domenica con il suo profumo di mattina, la prima canna consumata in un giardino. Le giornate d’estate senza tempo, senza soldi, senza ansie ma con un carico di vita e sogni e grinta.
Fu quel giorno che capii che la forza della pillola è proprio questa.
Svegliare un ricordo, regalare un momento di sogno.
Come se quella stella che cade nel cielo fosse lì.
Solo per noi. Pronta ad esaudire ogni desiderio.

Bella

Il Banana mi guarda incuriosito e continua a rivolgermi le stesse domande a cui io non riesco a dare una risposta. Bella. Diversamente bella. Bella nel senso che rimani catturato da lei. Non mi va di dirgli di come sorride o dei suoi occhi quando sono intenti a pensare a qualcos’altro. Non mi va di dirgli quello che le farei perché non è solo questo. Questo lo puoi dire di una che hai conosciuto, con la quale sei stato a parlare inutilmente di locali, vacanze, io faccio questo, tu fai quell’altro, andiamo, e ti ritrovi a letto e non ti va di baciarla. Per descrivere lei devi andare oltre. Devi capire i suoi ritmi e osservarli come osserveresti un volo di un insetto. Provo a spiegargli i suoi ragionamenti da maschio ma mi rendo conto che, per chi non la conosce, potrebbe sembrare un connotato negativo. Allora gli dico dell’imprevedibilità e di come riesca sempre a scatenare qualcosa. Il Banana mi guarda ma sembra che stia parlando in aramaico antico. Cerco di spiegargli di quella sera, dell’atmosfera che c’era, di come mi sia sentito “libero”, degli Articolo 31 sparati a palla e poi cambio discorso e, mentre lui mi osserva, ho davanti agli occhi la sua mano colorata di viola e giallo. Bella. Diversamente bella. Quando ti racconta delle sue amiche, una più fuori dell’altra, o quando ti parla, diretta, come un pugno nello stomaco. Come i suoi racconti che nascondono qualcosa che io vorrei condividere.
Sono le 3.47 e mi rendo conto che, con i fischi nelle orecchie ed una giornata alle spalle sempre in giro per Milano, le parole non escono lucide ed ordinate. Meglio così. Non le renderebbero giustizia. Sarebbe come spiegare con un teorema, il genio di Baggio o un quadro di Pollock. Meglio lasciare che le cose vengano fuori così. Come questa notte in cui il DJ inanella una birra dietro l’altra e con il pollice mezzo alzato e mezzo chiuso saluta la folla al centro della pista. Non credo se l’aspettasse di ballare Giuni Russo, Jannacci, De Andrè e persino Renato Pozzetto (si, pure lui) ma lei c’è e balla da sola. Ora che non so dove abita (o forse si), non andrò a casa sua, non le porterò quello che vorrei regalarle dall’ultima volta e non le chiederò di farmi salire. Non vorrei mai entrare troppo in confidenza e scoprire che ci sono almeno altre venti cose che mi fanno impazzire.Thanks.

venerdì 16 marzo 2007

Maria viene da lontano

Maria viene da lontano ed è una donna a ore. Milano stamattina le chiede un'ora per pulire una delle sue case per una delle sue signore. La Signora le dice che c'è stata una festa la sera prima e si deve sbrigare: un'ora soltanto per il salone. In un'ora di una mattina passata Maria si è lentamente innamorata, innamorata di un profumo, di un gesto sparito, di una traccia lasciata. Il suo amore non ha nome né volto, ma Maria ha imparato a riconoscerlo, come quando prima di gettare un pacchetto di sigarette vuoto lo trattenne un momento fra le dita, una marca sconosciuta… Lo annusò piano, un tabacco dolce come quello di suo padre. Un profumo di memoria dall'altra parte del mondo. Certo di un uomo, di chissà chi. Cercò poi i mozziconi nei posacenere e inseguì per la sala tracce disperse di quell'odore e come un segugio ricostruì un collage di frammenti che le parlavano di Lui. Frammenti di una notte a Milano passata, frammenti d'immondizia da pulire in un'ora a Milano. Maria imparò il liquore da lui preferito in un bicchiere abbandonato a fianco di sigarette finite, e baciò piano l'impronta delle labbra lontane come fosse il Primo Bacio fra loro.
Una mattina la Signora le diede una giacca da spazzolare, che il Geometra l'aveva dimenticata alla cena di ieri. Maria nella tasca trovò le sigarette di Lui e aspirò profondamente l'odore dell'uomo, del suo Amore. Tutte le mattine Maria prende la metropolitana trepidante, spera che per un'ora ci sarà il salone da pulire dai resti di una cena con ospiti, di una festa dove Lui era stato e dove lei può tornare cancellandola pezzo a pezzo, ripercotendola tutta pulendo via gli avanzi. Maria sparecchia la tavola e cerca la cicca spenta nella tazzina, che brutta abitudine! E ride, come fosse lì a rimproverarlo, bevendo il caffè dopo cena. Toglie i bicchieri dal tavolino e stringe in mano il bicchiere con una goccia di amaro lasciato: solo lui beve quello, non ha bisogno di indizi, ne è sicura da sé. Quasi si sente ubriaca, a cena hanno bevuto del vino nei calici di cristallo, quelli che vanno lavati a mano. Ride ancora Maria, si sente nell'aria ancora lo stantio del fumo e dell'alcool, hanno fatto tardi di certo, l'ultimo ospite deve essere andato via da poche ore, forse proprio il suo Geometra, si è attardato a fumare con il padrone di casa, e le sembra di volteggiare, stordita, tra le sue braccia.
Qualche mattina Maria trova ancora apparecchiato per tre e il cuore le accelera, il suo Amore è ospite assiduo, lo sa bene, spesso trova i suoi pacchetti dimenticati, con una o due sigarette abbandonate, che poi la Signora si fuma con il caffè la mattina, e Maria vorrebbe gridare. Maria è felice perché ogni volta che impiega l'ora a rassettare quelle cene cucinate per Lui, pensa che se viene a cena sempre solo significa che non ha un'altra donna. E sogna di aver mangiato sola con Lui, toglie un coperto e lascia due soli piatti sporchi a tavola, li guarda sospirando e immagina che siano i loro e che Lui ancora stia dormendo nella stanza a fianco. Conta i minuti Maria, la sua ora a spazzare le stanze dove è passato Lui è il suo appuntamento galante, chimera d'amore seduto sul divano a bere vino, prima dell'inizio di un'altra ora a stirare e a rifare letti. Per tornare a casa Maria prende la metropolitana, sperando che la Signora organizzi presto un'altra festa o un'altra cena alla quale lei non sarà invitata, ma svuoterà i posacenere la mattina dopo, cercando l'aroma di tabacco che l'ha fatta innamorare, facendo durare un'ora lo spazio di un sogno, ma che si sbrigasse che c'è molto da fare. (di Silvia Cella)

La cosa a cui tengo di più

La cosa a cui tengo di più tra tutto ciò che possiedo, e cioè quasi nulla, è il mio cappello. Me l'ha regalato lo zio Vlad per il mio decimo compleanno, dicendomi che apparteneva ad un uomo molto saggio e fortunato e che un giorno anch'io avrei avuto tanta saggezza e fortuna se l'avessi tenuto sempre con me. Sarà pure vero, ma per ora se ne sta lì rovesciato per terra , ospitando tre o quattro monetine che quasi si confondono coi suoi ricami grigi e dorati. Il solito fiume di gambe, pantaloni e scarpe di tutti i tipi scorre via inarrestabile. Non è mica facile stare immobili con le braccia incrociate sul petto, in ginocchio su questo pavimento lucido e freddo, ma secondo mio padre è la posizione migliore per spingere la gente a darmi qualcosa. Mi ripete anche di alzare lo sguardo solo quando vedo una moneta entrare nel cappello. Allora devo sorridere e ringraziare, anche se il più delle volte, di chi mi ha fatto la carità riesco a vedere soltanto la schiena.
Comunque, meglio stare qui che andare a fare il giro in metropolitana, dove mio padre suona il violino e i miei fratelli più piccoli passano col bicchiere mentre tutti fanno finta di leggere o si voltano dall'altra parte. Il giro dura più o meno un'ora e, se è andata bene, qualche volta andiamo a mangiare nel ristorante degli hamburger. Se anch'io sono stato abbastanza fortunato, verso sera mio padre mi lascia suonare il suo violino. E' il mio grande desiderio: diventare molto più bravo di lui, fino a che qualcuno mi darà dei soldi solo per sentirmi suonare e non perché sto inginocchiato per terra. Non mi dispiace questo posto, il vento gelido ci arriva poco, non ci sono cattivi odori e dietro quelle grosse colonne si vede la piazza della gigantesca casa di pietra, con la sua foresta di statue e le teste dei draghi che la difendono dagli spiriti maligni. Un giorno ci sono entrato da solo, mi ricordo la penombra e gli immensi vetri colorati, poi mi è venuto incontro un signore con la giacca e gli occhi scuri, mi sono spaventato e sono scappato via.
Ehi, è arrivata una moneta di quelle grandi, che valgono parecchio. A darmela è stato un vecchio, dalle mani callose e l'espressione un po' da matto, che mi ricorda il mio bisnonno morto due anni fa. Questo profumo invece, ma sì, è proprio lei, la stessa principessa che è passata ieri lasciandomi due monete. Mi riscalda ricordare quegli occhi e quel sorriso, mentre il rumore dei suoi tacchi alti si dissolve in lontananza. Ora è arrivato un mozzicone acceso, che ha sfiorato il mio cappello. Vedo un gruppo di scarpe colorate fermo di fronte a me e sento le risate cattive che si moltiplicano. Non devo alzare la testa, a costo di stringere le braccia fino a graffiarmi, tanto tra poco saranno spariti anche loro, come gli incubi che si fanno di notte. A proposito di sogni, ne ho uno , bellissimo, che viene a trovarmi tutti i giorni dopo il suono delle campane di mezzogiorno. Chiudo gli occhi e vedo un uomo vestito di bianco uscire dalla grande casa di pietra con un bastone d’'oro. Lo picchia tre volte per terra, tutti si fermano di colpo e cadono in ginocchio. Allora io mi rialzo in piedi e corro, corro libero come il vento. (di Marco Frosi)

Parcheggio

Dennis stava andando al super. Oddio, non che gli servisse davvero qualcosa. Due birre, un sacchetto di patatine. Era per staccarsi dieci minuti dalla tivù. Nella corsia dall'altro lato della strada si fermò un'auto. Un uomo attorno ai cinquanta gli chiese: «Mi scusi, sarebbe così gentile da tenermi il posto? Faccio inversione e torno». Dennis vide il posto libero ad un paio di passi da lui. Fece un cenno d'assenso e si mise tra le due auto. Non è che fosse un uomo particolarmente premuroso, ma gli era capitato così tante volte di sperare, di pregare, di trovare un posto libero che gli venne istintivo dire di sì. 5 minuti. Davanti a lui una Audi TT, dietro una BMW serie 5. Era stata una gran macchina, la serie 5. Ma il tempo era impietoso con le automobili più che con le donne. A proposito di tempo, si domandò, dove cavolo era andato quel tizio a fare inversione? Fece un passo per tornare sulla via del super, ma qualcosa lo fermò. Una sorta di pudore, non avrebbe saputo dire. Così riportò la gamba quei quaranta centimetri indietro e decise di aspettare ancora un po'.
20 minuti. In fondo erano i milanesi a dare tutta questa importanza al tempo. Agli orari. Alla puntualità. Tutti a girare come cricetini ordinati per far muovere la grande ruota dell'economia. Tutti presi a fare soldi senza rendersi conto che poi non c'era tempo per spenderli. Nell'unico viaggio che aveva fatto, in Africa, aveva visto che il tempo era vissuto in modo diverso. In Africa dicevano: «Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo». 35 minuti. In quel momento tornò su una delle sue principali teorie: l'uomo dovrebbe avere il diritto costituzionale di annoiarsi. La noia. Questo stato dell'essere ormai dimenticato. A Milano tutti avevano sempre cose da fare. Da comprare, discutere, sistemare. Cosa facciamo oggi? Niente. Risposte così sembravano bandite per statuto dalla regione Lombardia. Il sole cominciò a nascondersi dietro ai palazzi. Quel tizio doveva aver avuto un infarto, un incidente o forse ne aveva trovato un altro, di parcheggio. Non aveva più senso starsene lì, e allora perché non se ne andava? 45 minuti. Per principio. Avrebbe aspettato che il tizio ripassasse con la sua Punto color gianduiotto. E gliene avrebbe dette quattro. Certa gente non solo non sa comportarsi, ma fa della furba maleducazione uno stile di vita. Sì, avrebbe aspettato e forse lo avrebbe anche denunciato per danni.
Gli avrebbe fatto vedere che anche un uomo qualunque, quando vuole, sa tenere duro. Anzi, lo avrebbe fatto vedere a tutta la città. Sarebbe rimasto lì per giorni, settimane, se fosse stato necessario. Sarebbero arrivati i giornalisti e le televisioni. E lui avrebbe dimostrato a tutti la forza dell'uomo medio. Sarebbe stato la rivincita di quelli che credono, di quelli che stanno alle regole, che dicono sempre di sì. 55 minuti. Avrebbero parlato di lui anche all'estero. Forse avrebbe tenuto conferenze, avrebbe fatto capire che per lui tenere quel parcheggio aveva rappresentato l'ultima sfida. Dopo il licenziamento non aveva trovato lavoro e ora se ne stava tutto il giorno davanti alla tivù vivendo con i soldi che gli passava sua madre. E siccome non poteva fare niente, allora starsene lì, tra quell'Audi e quella BMW, sarebbe stato il non far niente di cui però tutti si sarebbero accorti. 1 ora. Guardò l'orologio. Il super stava per chiudere. Cominciava a fare freddo. Aveva perso un'ora. Buttata nel cesso. Al diavolo quel tizio. In fondo cos'era un'ora per uno che non ha niente da fare? Cos'era un'ora in Africa? Così se ne andò. Alle otto iniziava passaparola. (di Dario Alesani)

Elogio alla lentezza

che cos’è la lentezza? La capacità di impiegare molto più tempo nel fare azioni normalissime… nel portare a termine quello che tutti fanno in poco, una rottura del tempo, una capacità spiccata di alcuni esseri viventi: Lumache, Bradipi, Tartarughe, Rosauroni, che nel compiere un azione, a differenze di tutti gli altri viventi, impiegano un tempo senza regole. Ogni azione è un operazione precisa, studiata.
Abbiamo fatto un test: un gruppo di viventi decide di darsi un appuntamento per un film al cinema, spettacolo delle 20.30, l’incontro fissato per le 19.50, prevedendo i ritardi, cosa succede? Alle 19.00 arriva l’ansioso, alle 19.30 chi per caso era in zona, alle 19.50 i puntuali, alle 20.15 il ritardatario frettoloso, alle 20.30 la lumaca, alle 20.40 il bradipo, alle 20.45, la tartaruga, alle 21.00 Rosauron.
Che differenza c’è tra i vari ritardatari? La lumaca, il bradipo, la tartaruga arrivano trafelati, Rosauron è sereno, tranquillo, prova indifferenza per chi l’ha aspettato e nervosamente chiede spiegazioni…E’ il lento.
Un mondo lento è un mondo senza limiti, di strade senza divieti, i limiti si trasformerebbero in consigli di velocità, non ci sarebbero gli autovelox, i semafori, gli stop, le auto da corsa…Le metrò sarebbero vuote, i clacson smetterebbero di suonare, tutti gli ex veloci non direbbero “non ti ho potuto chiamare perché non ho avuto tempo!”, le librerie avrebbero pochi libri, le gallerie pochissimi quadri…
I lenti hanno il tempo per fare quello che i veloci, nel loro impeto, non riescono mai a fare.
“Andare lenti significa poter scendere senza farsi male, non annegarsi nelle emozioni industriali, ma essere fedeli a tutti i sensi, assaggiare con il corpo la terra che attraversiamo. Andare lenti vuol dire ringraziare il mondo, farsene riempire”.
Questo sito è un omaggio alla lentezza, sia come contrapposizione alla velocità, sia come ricerca della pigrizia. La lentezza è uno spazio, il luogo per decidere dove fare la cena, il pranzo, l’aperitivo o il prossimo viaggio (..tratto dal sito Rosauron.net)

lunedì 12 marzo 2007

Maurizio Porro

3 ore di macchina e sono già cotto. Ma tempo per riprendersi non ne ho. L’invito parlava chiaro. Poltronissima per la visione dell’ultimo film di Inarritu con le musiche ed i testi di Danny Elfmann. Prendo posto giusto cinque minuti prima dell’inizio e nell’istante esatto in cui una signora impellicciata mi asfalta i piedi con i suoi 100 kg di stazza. Il caldo della sala è pari solo a quello di una domenica pomeriggio d’agosto a Mondello. Per il resto, il contorno è quello solito. Odore acre di burro riscaldato delle macchinette dei pop corn, tappezzerie rosso porpora, luci di emergenza, passamano in ottone, uomo con due cellulari al mio fianco a cui ho appena lanciato uno sguardo di sfida.
Buio pesto. Dreamworks Pictures. Sceneggiatura di Caroline Thompson (una garanzia). Mi sono appena reso conto di aver commesso l’errore gravissimo di non aver preso nemmeno qualcosa da bere. Con quello che ho mangiato. L’inizio non è dei migliori. A pensarci bene forse non è nemmeno un inizio. L’incipit fa subito pensare ad una storia d’amore di quelle travolgenti (ma non doveva essere un film denuncia sullo sfruttamento della popolazione locale nell’estrazione dei diamanti?!). Il bacio più lungo della storia del cinema. Lei stringe lui tra le braccia mentre lui si abbandona e corre verso una fontana gridando “Marcella, vieni..” (dejavu. Perché ho l’impressione di avere già vissuto questa scena?): Marcella corre verso di lui. Ma sembra non arrivare mai alla meta. Corre in maniera ritmica e con il busto eretto e farfuglia qualcosa che ha che fare con la vita ed i cioccolatini. Se non fosse che Gelindo Bordin ha la barba potrei tranquillamente confondere Marcella per il maratoneta italiano. Credo abbia preso la direzione sbagliata perché a forza di correre vedo solo montagne verdi intorno a lei. In quel momento parte il sottofondo di Marcella Bella (mi avevano parlato un gran bene della colonna sonora ma onestamente questo non me l’aspettavo). La tentazione di cantare è molto forte ma riesco solo ad ascoltare. Non mi esce alcun suono dalla gola. Gola secca. Arida. C’è un cambio di scena improvvisa e vedo Messner che a colpi di Altissima, Purissima, eccetera dialoga ad alta quota con l’altissimo in persona (non Dio ma sua eminenza Silvio Berlusconi). A questo punto inizio a non capire più un cazzo. Conosco alla perfezione la tecnica di montaggio di Inarritu ma a questi cambi repentini e soprattutto al sorriso di taglio del cavaliere non sono proprio abituato. Il dialogo è surreale. Si discute della possibilità di fare una grande opera che getti un ponte tra il K2 ed il Monte Bianco risolvendo in questo modo sia i problemi legati al traffico che l’isolazionismo della Val d’Aosta. Messner pare compiaciuto dell’idea e i due bontemponi si concedono un caffé (quello buono) non prima di essersi fatti una pista (nel senso di discesa).
Il barista, forse colpito dalla coppia quantomeno insolita, inanella una serie di errori sulle ordinazioni. Caffé alla humour, all’utopia, amaro, amarissimo, dolce, dolcissimo (questo è un evidente richiamo del regista al film “Vieni avanti cretino”..qui non mi frega). In quel esatto momento giunge al tavolo di fianco un uomo con borsa portalettere e cappello ed incomincia a declamare poesie di Pablo Neruda:

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,chi non cambia la marcia,chi non rischia e cambia colore dei vestiti,chi non parla a chi non conosce.

Quelle parole mi riportano in un’altra dimensione e mi accorgo che Messner sta impastando un vaso d’argilla stretto tra le mani del cavaliere. Il sottofondo di Unchained Melody (oh..my love..my darling..) incornicia alla perfezione quelle dolci effusioni. Se non fosse che in lontananza sento un brusio molto forte. Come di una folla caciarona che abbandona uno stadio. La folla c’è veramente ma solo sul grande schermo. Pare una processione. L’uomo che porta la croce è seguito da una scia chiassosa di persone. Gran finale. Le note di Jesus Christ Superstar si fanno sempre più forti. Maria Maddalena interpretata da Maria De Filippi invita tutti gli apostoli ad una sfida di ballo (Christo è abbastanza tranquillo in quanto gode della preferenza del pubblico). In quel mentre Garrison (ma chi è Brian e chi è Garrison?) si avvicina al Signore chiamandolo a gran voce: “Signore”..”Signore”..scena entusiasmante..di uno spessore ed una intensità che pare quasi di sentirla in sala quella voce..”Signore”..”Signore”..ora la voce si fa più insistente e mi sento mettere una mano sulla spalla..bocca impastata, mi sembra di uscire da un vortice scuro..”Signore..mi dispiace svegliarla ma devo chiudere la sala”. Mi guardo intorno con gli occhi ancora a mezz’asta. Sala deserta. Luci accese e schermo spento. Mi ricompongo e mi pulisco la bavetta persa come i neonati. Ho le ossa indolenzite e la testa confusa. Saluto con una punta di fastidio l’addetto alla sala. Non ricordo molto altro di quel film e non saprei che voto dargli. Una cosa è certa: la prossima volta devo ricordarmi di evitare di mangiare la peperonata prima di un film di Inarritu.

giovedì 8 marzo 2007

Today

Today,
We are on this Earth by God’s decision,
We are on this Earth to create our life like a masterpiece
The Life we have to live is like a canvas
Some sketches and drawing it starts to take a shape
then you add colours and your canvas assumes its own light.
With the passing of time, the colours acquire tenderness,
strength and warmth
that give you a never-ending enchainment.
Life is exactly the same. You start with some errors and stupid things
then you collect experiences,
sentiments and your soul starts taking a shape.
With the passing of time sensations acquire tenderness and turn into meaningful memories.
It’s like a treasure of emotions and thoughts that give you the powerful of a Giant
It does not exist life without colours. It does not exist life without chaos.
We are on this Earth in order to elevate our soul to a higher level.
Sentiments have to guide us.
We are on this earth for the Love.
Love for beauty, love for nature, love for honesty and simplicity, love for her.
Do not fear your sentiments. They are the only real motivation for everything around you.
Start dancing and start hugging who is next you. Feel free to tell of your fears, your desires.
Defend an idea with the strength of a smile and do not fear to look like crazy person.
Being crazy is leaving each day exactly the same as the previous one
Not sleeping in the very first place you find on your trip
Not drawing what you feel inside
Not singing with all your voice. The true craziness is not crying for having reached happiness, not being surprised seeing the sun on your pillow or looking at the gorgeousness of her hairs.
True craziness is thinking about Death
We will care about it when our canvas is finished.
We will care about it when our hearts will be full of everything.
We will care about it when it is our time.But not today
.

mercoledì 7 marzo 2007

Andrea G. 30_6_94


Credo esista una cosa che si chiama fede. Io sono abituato a contare sulle cose che posso vedere e toccare. O quantomeno su ciò che esiste. So che posso correre per almeno un’ora, posso cantare discretamente “It’s easy to love you”, so qual è il gusto di un Pampero e, benché Raffa non ci creda, lo distinguo da quello dell’Havana, so come è fatta la sequenza di Fibonacci, non conosco l’Australia ma non c’è bisogno di fede per capire i racconti di Hanny quando mi spiega come siano tutte uguali le città europee rispetto all’Ayers Rock, le distanze e tutto il resto.
La fede, forse, la devi costruire. Ci si deve arrivare. Un percorso lento. Quasi coercitivo ed ipnotico ma allo stesso tempo motivato. “Quanto tempo è che non preghi Dio?” Qualcuno forse te l’ha chiesto. O te lo sei chiesto in uno dei tuoi momenti intimisti. Come lo sono quelli che riesco a ritrovare chiuso nell’abitacolo della mia Golf con l’aiuto di Daniel.
Fino a ieri ero convinto fosse così. Pazienza, impegno, sforzarsi di capire ciò che è incomprensibile con tutte le forze.
Fino a ieri.
Poi arriva una maestra che pensavi non avrebbe mai incrociato la tua vita, neanche per sbaglio. Cerca di spiegarti con forza e comprensione di come Andrea abbia scritto quella cosa. 12 anni al giorno d’oggi sono molto di più che ai miei tempi. C’è la voglia di emergere, sentirsi un campione in un campo di calcio o un idolo tra le ragazzine. Lui però non è così. “Signora, non sappiamo il motivo per cui è così. Può aver sofferto alla nascita o può aver avuto delle lesioni per via di quella malattia. Penso: “Cazzo, ma qualcuno alla televisione non mi aveva detto il ‘momento più bello della mia vita è stato l’arrivo di mio figlio!!’??. Finto. Come il Grande Fratello o come le tette della mia collega. Finto perché per Andrea non è girata proprio così. Peccato. Niente Pay Per View che ti scegli tu il programma da vedere. Niente Personal Shopper che ti dice “compra questo” “anzi quello”. Lui arriva ed è così. Te lo tieni e LO AMI. Lo ami perché è tutto per te e perché lui avrà bisogno sempre di te. Perché lui è ‘diversamente abile’. Diversamente perché qualcuno di educato ed ipocrita fino al buco del culo non ha il coraggio di dirti che lui non troverà mai una ragazza che lo ami, non riuscirà mai a farsi una vita o anche solo a coronare un progetto tutto suo.
Fino a ieri.”So che è difficile crederci ma le assicuro che l’ha scritto lui” insiste la maestra.
Scendo le scale, mi infilo ciò che trovo. Corro per Affori come un bambino di 12 anni. Come mi piacerebbe facesse Andrea. Stringo tra le mani le chiavi. Non ho il tempo né la voglia di pensare a niente. In quel momento forse è la fede che mi sta facendo correre.
“Vede questo è ciò che ha scritto” “L’ha fatto da solo. Io non…”
So che non reggerò. In quel momento affollano la mia mente i momenti in cui gli canto una canzone, quando cerco di capire ciò che lui cerca di dirmi ma che le sue difficoltà di espressione gli impediscono di fare. Ho 42 anni e non voglio certo farmi vedere da lei mentre piango. Ho un macigno nella gola e gli occhi mi stanno scoppiando…non resisto.
Clic. Print. Me lo stampa. Stringo il foglio che Andrea ha scritto con quel computer che è il suo unico modo di comunicare con il mondo. Non ci credo.
Stare con Giulia una decina di anni mi ha insegnato che la mente razionale accetta le fede solo quando esiste un segnale che ti tempesta davanti agli occhi. Davanti agli occhi ora ho lui. Ho quelle parole che si nascondono dietro i suoi occhi e che da oggi guarderò in maniera diversa. Capisco che ha un cuore. Capisco che non è quello che sembra. Capisco che forse è meglio di tutti gli altri. Capisco che non sempre posso capire. Piego in quattro il foglio, lo tengo con me e corro da lui. Da oggi credo esista una cosa che si chiama fede
.

Nouera

Nouera. Credo sia a 100 chilometri da dove abito io. O forse ad un anno luce, un giro di vite o dietro l’angolo. Nouera è il paese dove vorrei abitare. Forse. Offresi bilocale, pochi euro, già arredato completo di un cane, una compagnia di amici, un fuoco, e luce. Quella vera del sole che ti scalda sempre. Nouera, devo averlo letto su qualche libro, è esistita da sempre. La gente si incontra per strada e si sorride. E litiga. E si bacia come nei film degli anni 50 con Gary Cooper e quelle sportive decappottabili. Ma non fa finta di niente. Comunque si scontra. Sulla mia carta d’identità c’è scritto Milano, uomo, professione, nazionalità, colore occhi. Punto e stop. Per chi abita a Nouera c’è molto di più. C’è scritto quali sono i sogni che uno si porta da bambino e come fare per inseguirli sempre senza lasciare che il fuoco si spenga. Nouera è come l’isola che non c’è ma c’è nei sogni di chiunque di noi. Forse un giorno mi ci trasferirò e ci spedirò delle cartoline a tutti i miei amici e ai miei genitori. Mi piacerebbe raccontare loro di come si riesca a sentire il profumo dell’erba a Nouera. L’erba vera. Quella che puzza di umido e non te la togli dai jeans. Fai un po’ di fatica a girare con la bicicletta ma a Nouera c’è la fretta di arrivare in nessun luogo.
Musica e vino non mancano mai. Credo che si possa persino girare in mongolfiera e vedere tutto dall’alto. Non ci sono centri commerciali ma alcune botteghe dove puoi lasciarti trasportare dai racconti di uomini e donne anziane e sagge. Le strade cambiano nome ogni anno, al posto dei numeri civici ci sono i quadri più belli e colorati di Klee, Pollock e Klimt e ad ogni angolo c’è un albero di pesche. Tutti sanno giocare a scacchi, sanno suonare uno strumento e hanno amato almeno una volta nella vita. A Nouera i pomodori sanno di pomodoro e l’acqua dei fiumi è acqua. E basta.
Ogni giovedì, sempre alla stessa ora da 100 anni, parte un piccolo traghetto che naviga su di un fiume alla scoperta degli angoli più suggestivi. E ogni gita si scopre sempre qualcosa. Perché a Nouera la gente riesce ancora a sorprendersi e a guardare alla vita con gli occhi dei bambini. A Nouera i bambini dai 5 anni in su non conoscono il significato della parola guerra, dai 5 anni in giù semplicemente non sanno leggere ma è già pronto per loro il libro delle tradizioni di Nouera. Un libro dove si parla di razze, religioni, costumi, confini, colori, profumi, paesaggi che si mischiano, coesistono, si parlano, si fondono, si evolvono. E crescono. A Nouera non ci puoi andare ma, non si sa come, ci si arriva. Ci si arriva in una notte di settembre immerso nel silenzio e nei sogni, ci si arriva con la finzione di un viaggio chimico o con la fantasie e le emozioni che ti regala una trasferta a bordo di un camper con le persone a cui tieni.
Chi è stato a Nouera racconta di come sia difficile tornare nel proprio paese di origine. Di come sia difficile barattare gli sguardi delle persone di Nouera con la fretta ed il silenzio assordante di una metropolitana. Di come sia difficile lasciare le bellezze delle donne grasse e naturali per le caricature impomatate ed impalcate delle città della moda. Di come sia difficile rinunciare all’azzurro e al giallo per i colori metallizzati, fluo, al neon, plastificati. Ma tutti quelli che ho incontrato mi dicono sia difficile. Difficile. Non impossibile. Tutti loro mi hanno raccontato di come il vero succo di tutto sia cercare Nouera negli angoli delle proprie città, quando si gira di notte nascosti dalle luci ambrate. Nei parchi cittadini o a fianco delle fontane circondate dai cinesi. Negli angoli più intimi delle persone che guardi ogni giorno senza vederle. Nelle note di una canzone scoperta per caso, in un sms d’auguri che ti coglie impreparato, quando insegni a tuo nipote ad andare sui roller, nell’abbraccio dei tuoi, nelle foto che tieni sopra la mensola, in un barbaresco che conservavi da dieci anni, quando incroci lo sguardo di lei. Per tutto questo e per molto altro ancora mi sa che rimango ancora qua. Almeno per adesso.


Nowhere [ ‘nouwεa*’ ]. S. luogo inesistente: he came out of - , apparve misteriosamente. Av. In nessun luogo. Diz. Inglese Garzanti
.

lunedì 5 marzo 2007

Proibito


e continuano a martellarci con queste proibizioni! è la volta di Stefano e Domenico accusati di incitare la violenza sulle donne con la loro ultima pubblicità.. donna a terra, tenuta ferma ai polsi, altri tre che guardano. mah.
la settimana scorsa dicevo (gridavo?), tra pizze e ravioli, che l'unico metodo adottato in italia per fermare IL MALE è la proibizione. ci proibiscono di fumare, di mangiare male, di schiantarci con la macchina, di drogarci più del dovuto, di spacciare agli amici, di violentare le amiche. ma io vedo modelle in posa con sigaretta, modelle blucerchiate (non doriane, parlo di occhiaie) taglia 30, automobili da uno a 100 in due secondi, senatori che lavorano 8 ore al giorno (si aiuteranno in qualche modo, no?), discoteche che si animano all'una di notte, feste e festini dove non sai più qual è la tua o quella degli altri..
cosa manca??? solo una cosa, SAPERE, CONOSCERE, INFORMARE. fateci sentire come rantola un uomo che muore fumatore, vedere la famiglia distrutta dalla quale dipende nelle ultime ore. leggere di uno spettro che ha le luci di una passerella puntate addosso solo
due giorni all'anno. riconoscere i pezzi degli arti sparati a decine di metri di distanza dallo schianto sull'asfalto. ma inquadriamoli questi vostri bei bambini disfati la mattina.. 'no raffy, la coca non fa male, davvero'. ma capiteli questi bei maschietti che ce la mettono tutta per possedere le cose che cose che ci fanno impazzire, e non ci bastan mai...
fatemi capire la conseguenza di un jeans stracciato al posto giusto, nel momento sbagliato
.

giovedì 1 marzo 2007

Ferraffa

- ma perche si mettono sempre qui? vedrai che al ritorno mi fermano, cheppalle.
perche non fermano i drogati, i ladri. i nonni che vanno a puttane.
è un bel pezzettino tornare a casa, non che ci sia molto da fare per ammazzare il tempo. c'è la medica che fa freestyle anche quando legge la pubblicità, ma non riesco ad ascoltarla ho sonno e sono distratta, vorrei ricordare tutti i dialoghi, ogni volta tento di ricordare le frasi che fanno centro, ma non riesco. la mia capacità di memoria a breve è minima, si svuota non appena introduco nuovo materiale. eccoli là in fondo, con i lampeggianti blu. ma dove sono? in mezzo alla rotonda. a fianco un'altra auto. staranno dando indicazioni stradali? chi è più coglione, il carabiniere che si ferma in mezzo a una rotonda o il cittadino che chiede indicazioni affiancandosi? rallento, va bene. mi fermo anche, perche quelli son capaci di ripartire proprio quando lo faccio io, sai che divertimento. metto la prima, ma stasera sono un po' kupa, li guardo dritto negli occhi, da sopra la mia spalla, eccoli a sinistra, con i loro fari belli accesi, mi illuminano tutta la macchina. lo so che non dovevo farlo, ma avevo voglia di guardarli, quel secondo in piu del normale, quello che fa la differenza. riparto, prendo in mano il telefono, mi sto proprio annoiando perche mi viene in mente di chiamare markus, gli devo sempre delle scuse, o comunque devo sempre rispondere cortesemente a qualche chiamata persa.. (una cosa che faccio solo io?)
- gli ho corretto un SU. perche è incredibile che un direttore di un giornale non dia importanza alla differenza fra prendi un tavolo e vai sù oppure appoggiare il libro su un tavolo. ho perso il lavoro, mi hanno licenziato.
arrivano. vedo tutto nero intorno, ma nello specchietto sono incorniciate quelle lucine blu lampeggianti, si avvicinano, veloci. abbaglianti. no, ti prego, dimmi che non lo vogliono fare... vado avanti, metto il telefono a riposo, non avevo ancora composto il numero. abbagliano, abbagliano, accosto. spengo irene, non credo che i club dogo aiutino a creare una bella atmosfera. prendo la borsa. abbasso il vetro, eccolo, certo. non poteva essere altrimenti, carino, serio.
- buonasera
- salve.
lo guardo e intanto cerco di aprire la cerniera della borsa. lo guardo, e penso che siamo proprio in un mondo fantastico. so già che non ce la farò a stare zitta, speriamo davvero di non esagerare. sono stanca. non so qui, ma in spagna non si deve scendere dall'auto, devi tenere le mani belle in vista sul volante. non ti devi muovere finche l'agente non te lo dice. disposizioni post ETA.
- cosa le devo far vedere? sorrido, ma cosa cazzo sorrido volevo essere seria e cordiale, e mi è uscita la bestiata perche volevo sfidarlo, è da quando li ho visti in mezzo alla rotonda -contro ogni regola del codice stradale del mondo- che mi andava di fare così.
un momento di pausa, sta pensando.
- eccosa mi deve favvedere, la patente..
- si. (ma mai dare nulla per scontato). un attimo, per favore.
la cerco. la patente. riesco ad aprire la cerniera della borsa. butto le mani dentro come per far nascere un puledro, ma niente. sento di tutto tranne il portafoglio. bella lì, adesso si accorge che sei stanca perche hai ancora in circolo il vino campano. e non gli sto nemmeno sorridendo, io che sono così facile a queste cose, per ingannare l'attesa.. calma. una cosa alla volta. cartelletta trasparente con all'interno documenti della dichiarazione iseeu di dany, per elena. che stasera nn si è presentata a teatro. dice che lei si vuole fidanzare con accordino, gli altri registi non le interessano. menzogne. un pacchetto di tè chiamato 'buon umore' con tanto di fiocco e biglietto d'auguri. una bottigleitta d'acqua vuota. la mia agenda. urban, il giornale. penne, fazzoletti, usati. tre biglietti del teatro. un orario dei treni. ah, ecco il portafogli. ecco la patente.
- è lei?
- certo (perche non mi chiede la carta d'identità invece di fare queste domande idiote? ti do la patente di un'altra?)
- residente a?
- monza
- c'è scritto milano.
- allora milano. come c'è scritto milano? (perche c'è ancora scritto milano? ah no..)
- dietro. c'è il cambio residenza.
- via umberto..
- si quella
- attenda un attimo.
va alla macchina. la sua. torna.
- cosa fa qui?
- ho accompagnato mia sorella, abita qui vicino.
- e adesso torna a casa tutta sola. fidanzata? single?
incredibile, sto sorridendo. non ne ho voglia, ma sto sorridendo. forse posso ancora rimandare, la farò finita alla prossima disgrazia che mi capiterà. finche sorrido c'è speranza.
- single
- e vive da sola in via umebrto I... single.. beh diciamo che a trent'anni se sei sola o hai qualcosa da raccontare, oppure hai proprio un carattere di merda..
- di sicuro è la seconda..
bene, primo ha sbagliato a fare il calcolo dei miei anni, perchè non sono esattamente trenta. secondo, continuo a sorridere, ma che cz sorrido?
due volte in una sera è troppo. insomma, ci hanno gia tenuto in ostaggio quelle scatenate di Finnegans Wake.. tutte quelle pistole, le barbe finte.. irlandesi.. è normale che io sia un po' prevenuta, e col sorriso impostato su automatico.
- che lavoro fai?
- sono agente di viaggio
- ah, sarebbe?
...
- si vede che fai un lavoro a contatto con la gente, sei molto sorridente, solare (se dice anche 'disponibile' scendo dalla macchina e gli stacco la pistola dai pantaloni)
- dove lavori? dove vai quando non lavori? che hobby hai?
giuro non sentivo parlare di hobby da parecchio.
- e che spettacolo siete andate a vedere? che teatro?
- il libero.. vabbè non lo conosci di sicuro (chiudi la bocca raffy..)
ma rimedio
- non lo conosci perche son tutti principianti, è una scuola di teatro..
ma poi queste info le controllerà? dove lavoro, cosa faccio, quando.. no, non credo! o sì?? sono stanca!!
- dov'è la mia patente?
- la sta controllando il collega
- e cosa pensa di trovare?
- no niente, controlliamo e basta.. ma ce l'hai un bigliettino da visita?
apro il portafoglio... c'è di tutto.
- no guarda, non ne ho neanche uno (questi che sto cercando di nascondere col dito non sono biglietti da visita)
- beh diciamo che se ti chiedo il cellulare subito non è bello..
sorrido, sorrido..
- no, facciamo così: la prossima volta che passo e vi vedo accellero, così puoi fermarmi di nuovo per un controllo, va bene?
- eh, facciamo così.
deluso.
- posso riavere la patente?
- sì, il collega dovrebbe aver finito
da un pezzo, starà giocando a sudoku..
-grazie e arrivederci, raffaella.
non te lo chiedo come ti chiami, pinguino con la striscia rossa.
riposo, sciogliere le file.
che sonno.